Metà uomini e metà pilastro, le sculture di Domenico Borrelli si presentano come centauri architettonici, creature mitologiche contemporanee che sembrano detenere il magico potere di invadere, ri-costruire e ri-abitare lo spazio. I pilastri, solide strutture portanti degli edifici, sono per definizione elementi di sostegno, solidi e inamovibili. Borrelli, in una personale rilettura delle forme classiche, pare invece ergere colonne nomadi, erratiche e libere.
Sono forse esse metafora della spinta umana a edificare e urbanizzare, senza sosta e in modo esponenziale, oppure esito distopico di quello spazio (mal) costruito, in grado di condizionare non solo la vita quotidiana ma anche la società?
I “personaggi senza volto, senza testa né tronco (…) sembrano entrati in collisione con quello spazio che avrebbe dovuti accoglierli e invece li ha inglobati, trasformati, resi acefali” scrive Gaetano Centrone, evocando gli scenari delle banlieue e delle aree periferiche dei grandi agglomerati urbani.
Francesco Poli, in occasione della doppia personale Abitarsi di Borrelli al Castello di Rivara e nella galleria Davide Paludetto-Arte Contemporanea, definiva l’Abitare come una “Condizione vitale ma che rimane senza solidi punti di riferimento e con rischi continui di disorientamento”, rendendo in modo efficace – come possibile interpretazione delle sculture – la sensazione di precarietà e di continua evoluzione/costruzione che configura il rapporto tra essere umano e spazio circostante, da sempre senza pace né quiete.