L’architettura come habitat, e più in generale la composizione del tessuto urbano, è stata per troppo tempo considerata come se avesse raggiunto il proprio obiettivo nel momento della sua realizzazione, senza considerare il trascorrere del tempo. In realtà, non c’è niente di più flessibile ed espansivo. Germain Ortolani usa l’architettura e il suo rapporto con il tempo come mezzo narrativo. La sua ricerca si nutre della riflessione di Yona Friedman sulle città spaziali (L’architecture Mobile, 1970), interrogandosi su come rendere la città di domani più modulare e sulla capacità degli edifici, un tempo rigidi, di sviluppare una funzione più flessibile all’interno della città. Parallelamente, l’artista indaga le possibilità di uno sviluppo urbano stratificato non accontentandosi di estendersi in 2D, ma sviluppandosi nelle quattro dimensioni, in modo che queste ramificazioni del piano urbano consentano di abitare la mobilità.
Il lavoro di Ortolani prende in prestito gli stilemi e l’estetica del movimento moderno e brutalista, in cui forme rigide e sicure giocano con l’estraneità strutturale all’interno di una scacchiera urbana mutevole. Le utopie formali di inizio secolo, partendo da un ideale tecnico e formale, e purtroppo alla prova dei fatti le grandi costruzioni seriali – i cosiddetti grand ensemble – si sono trasformati nella distopia sociale contemporanea delle periferie.